Il pane selvaggio di Piero Camporesi
Filologo, antropologo e critico letterario, Piero Camporesi getta uno sguardo sulla letteratura degli umili, sulle pratiche quotidiane e i riti di un’umanità disperata, con un atteggiamento tanto empatico quanto concreto, che lo porta a percepire (e farci percepire) tutto l’avvilimento, la sofferenza e la fame delle generazioni che ci hanno preceduto. “Il pane selvaggio” è un libro sull’umanità che siamo stati e sul nostro modo di alimentarci, sul pane come soggetto culturale, che rappresenta il «punto» e lo «strumento culminante, reale e simbolico, della stessa esistenza».
Alcuni brevi estratti dal capitolo 12. Vertigini collettive, sono qui posti in relazione alle immagini di Daniel Day Lewis, corpus scultoreo in pane di Luca Trevisani.
La gerarchia dei pani e delle loro qualità sanzionava di fatto un confine sociale; il pane rappresentava uno status symbol che qualificava una condizione umana e una classe, a seconda del suo particolare colore che svariava in tutta la gamma dal nero al bianco, prima dell’introduzione del mais nella panificazione che modificò, anche coloristicamente, quella tirannia dei cereali che per millenni si era protratta fra le popolazioni dell’Occidente e di tutte le terre in cui le granaglie costituivano l’alimento primario.
La scarsezza di grani nobili portava a panificare non badando troppo per il sottile alla qualità delle miscele nelle quali entravano graminacee dai semi stupefattivi come il loglio e una sua varietà chiamata nel Bolognese «ghiottone» e altrove «gittone» o «ghittone», erba dai neri grani usata come foraggio o per nutrimento di galline e capponi ai quali, anziché nuocere, affrettava l’ingrasso. «Il pan c’ha dentro questo [il loglio], oltra che perturba la niente facendo star come ebriachi et face dormir assai et nausea.» Spesso entravano nelle misture anche i grani di veccia che producevano umori malinconici; accadeva però di frequente che i suoi baccelli, simili a quelli della fava, non arrivassero nemmeno a maturazione.
Paradisi artificiali insospettati si aprivano ai sottoalimentati e agli il sonno, il sogno, il torpore, il rallentamento e l’incoerenza delle funzioni afferravano vasti strati di popolazione non solo marginale, ma attiva e produttiva. duttiva. Se l’assenteismo nelle botteghe artigiane e nelle manifatture di seta e di canapa non è quantitativamente dimostrabile, non mancano però gl’indizi e anche le prove per poter iniziare lo studio di una problematica nuova e di grande attualità. È sconcertante imbattersi in una società non lontana nel tempo e vicinissima nello -spazio largamente avvolta nella narcosi indotta da pane adulterato: scoprire il mondo dei lavoratori urbani sottoposti a frenesie o a torpori che nelle campagne erano ancor più frequenti, specialmente nelle terre della «bassa» dove la coltivazione della canapa, in tutte le sue varie fasi, dal campo al macero, al filatoio domestico, producendo effetti afrodisiaci, contribuiva ad alimentare una sensualità agraria della quale la meccanizzazione delle campagne ha cancellato ogni traccia.
Stregonesche distillazioni di erbe dai poteri strani, filtri e incantesimi; folletti e licantropi, «iguane», fate e regine del giuoco; Morgana e Magloria, la regina Mab, Arlecchino e la sua masnada, gli incubi e i succubi, incantatori, maghi e indovini, la memoria nostalgica dell’orgia collettiva e del gran banchetto sabbatico; l’antropofagia e il vampirismo, il volo notturno e i congressi delle streghe: l’immaginario collettivo demonico e notturno delle generazioni dell’età preindustriale, nasce dal mondo della fame, della carenza, della frustrazione come compensazione illusionistica dell’alienazione esistenziale.
La droga più efficace e sconvolgente, più amara e feroce, è sempre stata la fame, produttrice di insondabili scompensi psichici e immaginativi: da questa allucinazione forzata sono scaturiti i sogni aggiuntivi e tridimensionali compensativi della miseria della quotidianità, dello squallore della ragione e degli oltraggi continui perpetrati su esistenze miserabili e personalità infantili, dalla morbilità psichica a tendenza convulsiva e asteroide, tipiche di una società schiacciata dal peso degli «status» piramidali, immodificabili per legge divina e volontà regale. I deliri, le allucinazioni, le frenesie provate dal protagonista del romanzo autobiografico di Knut Hamsun (Fame, 1900) possono servire a farci capire quale possa essere stata l’igiene mentale degli affamati d’ancien régime.
La società occidentale, sconfiggendo (almeno temporaneamente) la fame, ha distrutto i serbatoi onirici che alimentavano quell’allargamento della coscienza a sfondo irrazionale e visionario che certe tribù indiane del Nord America erano solite raggiungere col digiuno prima ancora che con l’uso della messalina. Con l’interdizione delle erbe allucinogene sono venuti a mancare i vantaggi di un’«immagine dell’universo a sfondo visionario», insieme alle forme di coscienza e di scienza diverse da quella, a una sola dimensione, della razionalità.
Piero Camporesi, Il pane selvaggio, Il Saggiatore 2016
GESTUS
15 ottobre
15 gennaio
Sede
Teatrino di Palazzo Grassi
Venezia
A cura di
Video Sound Art
Laura Lamonea
Chief curator
Thomas Ba
Curatore junior
Daniela Amandolese
Educazione
Francesca Mainardi
Pubbliche relazioni
Lino Palena
Produzione
Davide Francalanci
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