Vai al contenuto

Da Oshima ad Angelopoulos, attraversando la produzione di Rainer Werner Fassbinder, riconosciamo le molte tracce dell’opera di Bertolt Brecht, drammaturgo comunista, teorico e regista teatrale, nel cinema del secondo ‘900. Questi otto film, realizzati tra il 1967 e il 1979 riprendono da Brecht lo schema complesso e lucido di teatro politico, senza limitarsi ad adottarne i soggetti o replicare le tecniche. Il cinema è qui uno strumento di comunicazione, che presenta la realtà in quanto modificabile, “poiché animata dall’interno da una tensione dialettica che la spinge a trasformarsi”, e allo stesso tempo pone lo spettatore in atteggiamento attivo. Mostrando le contraddizioni socioeconomiche e i laceranti effetti che esse provocano sull’uomo, questa legacy di registi ha raccolto l’ambiziosa sfida di Brecht, riuscendo a stimolare nel pubblico tanto l’attività critica quanto la tensione emotiva al cambiamento.



1. Baal di Volker Schlöndorff, 1970

Volker Schlöndorff traspone l’opera prima di Bertolt Brecht del 1918 nella contemporanea Germania Ovest con un adattamento tanto feroce quanto sperimentale, di cui nell’ultimo mezzo secolo abbiamo rari esempi. Grondante di brutale carisma, Rainer Werner Fassbinder incarna l’omonimo poeta anarchico, che sente che la società borghese lo ha rifiutato e si scatena in una furia fradicia di grappa. Seguendo fedelmente il testo di Brecht, Schlöndorff giustappone la teatralità della prosa con l’essenziale lavoro di una macchina da presa 16 mm a mano, che restituisce con immediatezza questa selvaggia storia di ribellione. Con un cast di supporto tratto dalla troupe di attori teatrali di Fassbinder, che include tra gli altri Margarethe von Trotta, BAAL mette in scena la radicale visione del suo regista, pioniere del Nuovo Cinema Tedesco. – The Criterion Channel


2. Il matrimonio di Maria Braun di Rainer Werner Fassbinder, 1979

Con “il matrimonio di Maria Braun” Fassbinder supera la barriera del film “per cinefili”. Possiamo riconoscere molte influenze, da Godard a Douglas Sirk, passando per Brecht e Wedekind, ma l’autore ci propone una vera storia romanzesca e poetica i cui travagliati personaggi vengono trattati con nobiltà. Un altro punto forte del film, che lo accomuna a “Vaghe stelle dell’Orsa” di Visconti o persino ai film di Murnau, è il modo con cui Fassbinder rivolge lo sguardo in maniera egalitaria alle donne come agli uomini, una cosa assai rara. Fassbinder ama tanto le donne quando gli uomini, e non discrimina nel mostrare i loro corpi: la nudità di un soldato nero americano, non obeso ma francamente sovrappeso, possiede la stessa bellezza della strega nuda del “Dies Irae” di Dreyer. – François Truffaut


3. La chinoise di Jean-Luc Godard, 1967  

“A Milano, Strehler sta facendo un ottimo lavoro. Ha messo in scena una piéce di Brecht con un bel testo di Althusser. Io l’ho adattato a me. Mi volto! E d’improvviso, mi assale, irresistibile, una domanda: se le parole che ho appena pronunciato in modo maldestro e cieco, non siano i frammenti di una piéce sconosciuta che cercano in me…operaio della produzione teatrale mondiale, il loro senso incompiuto. Che cercano in me e con me gli attori e le scenografie del loro grande discorso muto. Ecco perché parlo.” – Jean-Luc Godard

La chinoise è un’utopia cinematografica in cui alcuni personaggi isolati dal resto del mondo discutono e cercano di praticare il pensiero marxista-leninista nelle forme indicate da Louis Althusser, filosofo marxista francese che auspicava una trasformazione radicale del comunismo europeo, e da Mao Tse-tung, simbolo vivente della Rivoluzione Cinese, poi sfociata nella Rivoluzione Culturale degli anni Sessanta. L’altro intellettuale che dà forma con le sue idee all’utopia del film è Bertolt Brecht, il cui nome è l’unico a rimanere scritto su una lavagna dopo che Guillaume ha cancellato a uno a uno i nomi dei più celebri filosofi e scrittori. Questo piccolo episodio, che si sviluppa in un unico piano-sequenza, è un esempio dei principi brechtiani che stanno alla base dello slogan scritto dal gruppo sulle pareti dell’appartamento: “Bisogna sostituire le idee vaghe con immagini chiare”. – Treccani


4. La Recita di Theo Angelopoulos, 1975 

La recita, pur nella sua vertiginosa complessità, è, essenzialmente, un film sulla “rappresentazione”. Intersecando diversi piani narrativi – mai separati, e sempre pronti a confondersi tra loro -, Theo Angelopoulos realizza un grandioso affresco storico del suo paese, utilizzando come pretesto le avventure di una compagnia itinerante, nella quale rivive il mito greco degli Atridi. La vertiginosa complessità del film – che Angelopoulos utilizza, in primis, per stimolare l’approccio critico dello spettatore – è dovuta, per l’appunto, alla stratificazione delle diverse “narrazioni” che il film propone, nonché dai continui sbalzi cronologici della narrazione, anche interni all’inquadratura stessa. [continua a leggere] – Nicolò Vigna, Specchioscuro


5. L’impiccagione di Nagisa Ōshima, 1968

Uno dei grandi film di Nagisa Ōshima: un’opera di rara cupezza e ferocia, capace di utilizzare la teatralità statica e vibrante della messa in scena per rendere ancora più implacabile e funereo il tono della sua rappresentazione. Una pellicola scomoda, mortifera e consciamente sadica, non esente da una paradossale dimensione ludica – il gioco al massacro della reminiscenza – che contribuisce a rendere tutta la parabola narrata ancor più sprezzante e allo stesso tempo irreale, metaforica e insieme sardonica. Straordinaria riflessione sul potere della rappresentazione e sulla rappresentazione stessa. La vicenda delittuosa, a fini giudiziari, viene ricreata non a caso in forma di finzione, o per meglio di imitazione forzata, ridicola: è la Storia che si propone come tragedia e poi riformula se stessa in forma di farsa. Quello di Ōshima è un film che fa letteralmente a pugni col potere, declassandolo a circo e a miserrima parodia di se stesso: i burocrati sono ridotti a imitatori scimmiottanti, a burattini di quart’ordine, a marionette asservite a una fame di sangue che non conosce eguali e alle quali non importa poi più di tanto ciò che si va a punire, ma solo l’esercizio compiaciuto della propria autorità in un teatrino che ha comunque perso ogni dignità e autorevolezza, ponendosi addirittura allo stesso livello dei condannati e forse anche qualche tacca più sotto, rasentando l’abietto. Segmentato e brechtiano, crudelissimo e di una profondità strisciante e ineguagliabile, un film di rara cattiveria e intelligenza. – Longtake


6. San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani, 1973

Giulio Maineri, un anarchico internazionalista di origini borghesi, verso il 1870 guida un colpo di mano in una piccola città. L’impresa fallisce perché immatura e mal preparata e il capo viene condannato a morte. Mutata la pena nell’ergastolo, Maineri riempie la sua cella di fantasie solitarie. Parlando con se stesso finge di trovarsi nel mezzo dei dibattiti politici e di assistere al trionfo della rivoluzione: così vince lo sgomento della segregazione e continua a sentirsi vivo. Passati dieci anni, durante il trasferimento in un’isola della Laguna incrocia una barca che porta in galera altri sovversivi e scambia con loro qualche parola. Quanto basta perché risaltino le differenze fra due modi di ribellarsi. Mentre Maineri è rimasto uno “spontaneista” che punta tutte le sue carte sull’immaginazione, i più giovani hanno sostituito la lotta paziente all’avventurismo.

L’utopia sconfitta, dunque? Anche qui il film è complesso e problematicamente aperto, quanto chiaro e lineare: sull’altra barca viaggiano, è vero, il realismo politico ed il socialismo scientifico, con le loro ragioni di permanente validità, ma anche con i rischi incipienti del dogmatismo e della burocratizzazione; viaggiano i militanti operai ed i figli ribelli della borghesia, la lunga pazienza proletaria e l’irrequietezza giovanile, la lucidità della concezione leninista del partito ed il grigiore degli apparati.[…] Resta da discutere, insomma, se e fino a che punto il suicidio di Manieri “dia ragione” a quelli dell’altra barca: “Noi – dicono i Taviani – stiamo dalla parte di Giulio. Ma stiamo anche dalla parte degli altri, sull’altra barca. O forse nemmeno. Vorremmo essere su una terza barca, dalla sagoma ancora tutta da scoprire, in cui l’immaginazione di Giulio si unisca al senso più scientifico che c’è sull’altra barca”. – Sandro Zambetti. «Cineforum 137», 1972


7. Geschichtunterricht (Lezioni di storia) di Danièle Huillet e Jean-Marie Straub, 1972

All’inizio di Lezioni di storia, un giovane al volante di un’auto percorre le strade di Roma, si inoltra (e noi con lui) tra il caos del traffico, le viuzze e le piazze, i monumenti e lo sfasciume della città dei Cesari: una interminabile, estenuante penetrazione in una realtà sopravvissuta ai secoli, in quel che rimane di tortuoso, di angoloso e di vivente, della conclamata gloria di un tempo. Ma fu vera gloria? Il giovane si reca infatti (e le sue passeggiate in macchina si ripeteranno, sempre più avvolgenti e perentorie, come marce d’avvicinamento alla verità) a incontrare degli uomini che hanno «vissuto» l’ascesa al potere di Giulio Cesare e sono in grado di «testimoniarla».

Il primo di essi, anzi, appare togato come lui e ha il volto (attore Gottfried Bold) della sua iconografia tradizionale. Ma si rivelerà un banchiere. Poi ci sarà un contadino ex legionario: infine un avvocato e un poeta. Ed è forse col poeta – un certo tipo di poeta e scrittore, cinico e tronfio – che Brecht ce l’aveva di più, come ha detto Straub discutendo fino a notte il suo film. Sì, perché dal romanzo di Bertolt Brecht, Gli affari del signor Giulio Cesare, è tratto la scenario di Lezioni di storia. In quel periodo il grande drammaturgo studiava intensamente Il capitale di Marx.

Il cinema politico di Straub non è un cinema né di slogan né di intervento diretto, un cinema in cui, per esempio, non si dice mai la parola rivoluzione, con gran disappunto dei rivoluzionari a parole. È un cinema dialettico, con quel tanto di ambiguità che la dialettica consente e, insieme, con il ricchissimo apparato di correlazioni storico ideologiche, secondo un’analisi marxista del reale, che il metodo brechtiano della «distanziazione» e dello «straniamento», trasfuso sullo schermo con estrema sensibilità e cultura, conduce a diversi gradi, se l’espressione ci è consentita, di «ebollizione» didattica. – Ugo Casiraghi. «L’Unità», 16 settembre 1973


8. Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto di Elio Petri, 1971

Un film continuamente “scisso”, insomma: tra impegno politico e tentazioni estetizzanti (quando non addirittura caricaturali, applicate indifferentemente a poliziotti e studenti contestatori), struttura “classica” e sussulti modernisti (il finto sfarfallio, gli stacchi netti),  rigore della denuncia e esigenze di mercato. Perfettamente adatto dunque a ciò che racconta: la psicologia patologicamente scissa di un repressore-represso, combattuto fra l’ossessione di far trionfare la Legge (che lui vorrebbe immutabile, “scolpita nel tempo”), e l’ambizione superomistica di dimostrare come l’uomo di Potere risulti, nei fatti, assolutamente intoccabile da quella stessa Legge. Uno sdoppiamento proclamato a gran voce, gridato, ribadito non solo dal protagonista (un Gian Maria Volonté più che mai sopra le righe) ma, come abbiamo visto, dallo stile stesso del film. Passano quasi in secondo piano, perciò, sia la visualizzazione orwelliana del Potere, con quei faldoni e quei  calcolatori meccanici che nell’era della digitalizzazione suonano irrimediabilmente obsoleti; sia la goffaggine con cui Petri (e Ugo Pirro, suo complice nella sceneggiatura) infarciscono di citazioni e allusioni “colte” il corpo del film, da Brecht a D’Annunzio, dalla Pop Art a Kafka. [continua a leggere]. – Gabriele Gimmelli, Doppiozero

GESTUS
15 ottobre
15 gennaio

Sede
Teatrino di Palazzo Grassi
Venezia

A cura di
Video Sound Art

Laura Lamonea
Chief curator

Thomas Ba
Curatore junior

Daniela Amandolese
Educazione

Francesca Mainardi
Pubbliche relazioni

Lino Palena
Produzione

Davide Francalanci
Approfondimenti editoriali