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di Erica Petrillo

Ho 33 anni.

Sono nata a Milano. Dagli 0 ai 18 anni ho vissuto con i miei genitori. La loro casa si trovava e si trova tuttora in Viale Lunigiana 3, vicino alla Stazione Centrale. Quando ero piccola, questo era quello che si definiva “un brutto quartiere”. I miei genitori sono i proprietari della casa in cui vivono. Per 18 anni il concetto di “pagare l’affitto” mi è stato sconosciuto e ho avuto la fortuna di non dover pensare al “costo della vita”.

Ho frequentato l’università all’estero, nel Regno Unito. Ho potuto contare su una borsa di studio che copriva le tasse universitarie ma non l’affitto dell’alloggio. I miei genitori mi hanno aiutato a pagarlo: circa 400 sterline al mese, per una stanza in un college, per tre anni. Ed è ovviamente solo grazie al loro aiuto nel pagare l’affitto che ho potuto studiare a Cambridge, il che mi ha dato un grande vantaggio professionale, fino ad oggi. 

Dopo la laurea, ho lavorato per due ONG: prima per Amnesty International a Tel Aviv e poi per una piccola ONG a Chiang Mai, nel nord della Thailandia. Entrambi gli stage non erano retribuiti. Anche in questo caso, l’aiuto finanziario dei miei genitori è stato fondamentale. A Tel Aviv vivevo nella casa del mio ex compagno. A Chiang Mai non conoscevo nessuno, ma fortunatamente mi è stata offerta una stanza dal mio datore di lavoro nello stesso complesso in cui aveva sede la ONG. Era il 2014-2015; avevo 25 anni.

In seguito ho capito che lavorare per le ONG non era quello che volevo. Ho avuto l’immenso privilegio di poter ripensare il mio percorso e tentare la fortuna come curatrice. 

Mi sono trasferita a Venezia nel 2016. In quell’anno ho cambiato lavoro diverse volte, come una trottola: come guardasala al Museo Peggy Guggenheim e al Padiglione degli Stati Uniti ai Giardini, oltre che in una galleria d’arte. È stato un anno difficile, perché avevo 26 anni, guadagnavo in media 800 euro al mese e sentivo che il tempo stringeva. Quell’anno ho cambiato 7 case in 12 mesi, condividendo un appartamento con 5-8 persone. I miei coinquilini erano per lo più colleghe con le quali condividevo non solo l’abitazione, ma anche le stesse difficoltà economiche e la precarietà professionale. Avevamo una strategia: due di noi – di solito le italiane del gruppo – firmavano un accordo con il padrone di casa e poi si trasferivano di nascosto con altre 4/5/6 persone, in modo da dividere l’affitto e pagare meno. Non appena la famiglia ci scopriva, ci buttava fuori. E così si ricominciava…

Nel 2017 ho vinto una borsa di studio per lavorare al Dipartimento di Ricerca e Sviluppo del MoMA di New York, sotto la guida di Paola Antonelli. Mi pagavano 1.300 dollari al mese. Non ero mai stata negli Stati Uniti, ma per fortuna lì a New York la mia connessione era Michela, una ragazza italo-americana che avevo incontrato l’anno prima a Venezia. Grazie a Michela, ho trovato una stanza a Bed Stuy, un quartiere di Brooklyn, per 800 dollari al mese, che all’epoca era incredibilmente economico. Dopo l’affitto, mi rimanevano 500 dollari al mese per vivere, che non erano neanche lontanamente sufficienti. A New York come a Venezia condividevo la casa con altre 8 persone: geografie diverse, lotte simili. Il mio tragitto per andare al lavoro, da Bed Stuy alla 53esima strada a Manhattan, mi prendeva tra le 2 e le 2,30 ore al giorno.

Quando il mio contratto è scaduto, il MoMA non mi ha rinnovato il visto (erano i tempi di Trump e la politica del museo era quella di limitare il numero di visti rilasciati ai dipendenti stranieri) e così ho dovuto lasciare il mio posto. Sono tornata in Europa. 

Anche in questo caso sono stata fortunata. La mia mentore Paola Antonelli era appena stata nominata capo-curatrice della XXII Triennale di Milano – Broken Nature e voleva che continuassimo a lavorare assieme. Per la prima volta nella mia vita, avevo un buon stipendio (2.500 euro al mese). Potevo anche risparmiare, visto che ero tornato a Milano e potevo vivere con i miei genitori, in viale Lunigiana, vicino alla Stazione Centrale, in una casa il cui valore di mercato nel frattempo era aumentato esponenzialmente.

Dopo Broken Nature, ho fatto parte di una residenza curatoriale a Maastricht, nei Paesi Bassi. Ricevevamo uno stipendio di 900 euro al mese, uno studio gratuito e una stanza quasi gratuita (300 euro al mese). Avevo quasi 30 anni ed ero tornata ad uno stipendio inferiore ai 1.000 euro al mese.

Dal 2020 sono tornato a Milano. Dopo l’Expo 2015, gli affitti degli alloggi sono saliti alle stelle. Allo stesso tempo, ho un reddito stabile e divido l’affitto con il mio compagno, e questo mi ha permesso di trovare un posto dove poter vivere da sola, senza coinquilini.

Inoltre, poiché è qui a Milano che ho la maggior parte dei miei amici e conoscenti, posso contare su una solida rete di supporto e sono riuscita a trovare un bel monolocale in Paolo Sarpi per 850 euro al mese. Un prezzo incredibilmente basso per una casa in una zona così centrale, che non avrei mai trovato se mi fossi rivolta a un’agenzia immobiliare. 

Essere del posto mi ha garantito un vantaggio cognitivo che si è tradotto in un forte vantaggio economico. Questo mi viene ricordato ogni giorno: non solo quando pago l’affitto, ma anche quando mi rendo conto che posso dormire 45 minuti al giorno in più dei miei colleghi, perché posso andare al lavoro in bicicletta in 15 minuti, passando per il Parco Sempione. E questo influisce positivamente sulla mia salute mentale, rendendomi più produttiva sul lavoro e dandomi più tempo per concentrarmi sulle mie cose. Ancora una volta, un ennesimo vantaggio ingiusto derivante dalla mia posizione privilegiata attuale.

Qui si conclude la nota autobiografica. Anche se si è trattato di un racconto molto personale, spero che qualcuno di voi possa riconoscersi in alcuni dei suoi meandri, altalenando tra privilegio a precarietà, fortuna ed il suo contrario.

I punti che vorrei sottolineare sono due.

1- Che una casa nella sua essenza è e deve rimanere, fondamentalmente, un’abitazione. Nel momento in cui viene considerata una merce – o, meglio, nel momento in cui le nostre istituzioni pubbliche, complici del settore immobiliare commerciale, considerano una casa una merce – esposta agli alti e bassi del mercato, allora perde la sua funzione di riparo e inizia a manifestarsi qualcosa di profondamente immorale e socialmente pericoloso. 

2 – Quando parliamo di casa, non ci riferiamo solo ad un’architettura abitabile. Stiamo anche parlando di un territorio di negoziazione tra molteplici fattori che si intrecciano, tra cui classe, geografia di provenienza, genere, livello di istruzione.

Il fatto di essere bianca, di essere una donna, di poter contare sul sostegno economico dei miei genitori e su una rete internazionale di amici e conoscenti, ha influenzato profondamente dove e come ho potuto vivere.

E a loro volta, le case in cui ho vissuto – la mia storia di privilegi – hanno influenzato il tipo di lavoro (o di lavori) che ho potuto svolgere, il numero di ore al giorno in cui potevo dormire, la quantità del tempo libero che avevo (o che non avevo), la possibilità di essere impegnata (o meno) in azioni civiche, la possibilità di pianificare (o meno) un pochino la mia vita…

Una casa, quindi, è molto più di un’architettura: è un barometro dello status quo. È sia un prodotto che un fattore che determina il modo in cui navighiamo nelle dinamiche di potere e nelle sovrastrutture della nostra società.

Un’ultima parola, per concludere.
Case, plurale di casa, è una parola italiana che fonde due significati: la struttura architettonica in cui viviamo (“house” in inglese) e l’apparato di relazioni e simboli che ci fa “sentire a casa” (l’equivalente di “home” in inglese).

È importante, credo, che quando discutiamo della possibilità di forme migliori di convivenza consideriamo anche il significato simbolico di CASE, la parte “domestica” del termine.

Riflettendo su questo tema, il grande poeta palestinese Mahmoud Darwish scrisse: “Per ignoranza ti ho chiamato patria e ho dimenticato che le patrie vengono portate via”.

Con queste parole, il nostro pensiero e la nostra rabbia vanno a Gaza, alla Palestina e ai milioni di Palestinesi che chiedono il diritto alla loro casa.

Ph: Franco Raggi, Architettura mobile, 1974.