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L’identità di Gestus viene dal luogo stesso, è lo spazio a darsi forma. Lo spirito del luogo è quello del teatro, l’arte delle relazioni che si manifesta attraverso il movimento ritmico del corpo umano nello spazio. È un sistema muscolare e organico, una rete fisica di azioni e reazioni. La ricerca è incentrata sull’essere corpo partendo dalle riflessioni inaugurate dai grandi maestri teatrali del ‘900.
Il centro di interesse è il linguaggio fisico, attivatore di una dinamica trasformativa spirituale e sociale.

Suddiviso in due atti, Gestus è un corpo in evoluzione incarnato da due coppie di interpreti e da un coro che, come nell’antica tragedia greca, dialoga con i protagonisti attraverso l’immediatezza del movimento. Il primo atto – Rifare il corpo – trae ispirazione dall’utilizzo della maschera neutra inaugurato da Jacques Copeau nelle esercitazioni performative. La maschera permette agli attori di sperimentare l’efficacia dell’azione fisica, utilizzando il movimento crescente del tronco attivato dal respiro. L’essere rinasce senza volto e si muove come la luna nel cielo, non si adatta a qualcosa di esterno a sé, ma si riterritorializza, cambiando la sua struttura. Lo scopo primario è quello di spezzare gli automatismi fisici e mentali, scomporre il corpo come una macchina per poi ricomporlo.

Attraverso le opere del primo atto, tra profondità marine e incisioni rupestri millenarie, avviene un annullamento della gerarchia degli organi: a ciascuna parte si riconosce la possibilità di un’azione autonoma, svincolata e contraddittoria. Enrique Ramirez e Luca Trevisani dialogano con l’idea guida di Artaud nel Teatro della crudeltà: rifare il corpo per restituirlo alla sua vera libertà, rinsavire. Non basta muoversi. È una ricerca sulle azioni fisiche, il tentativo di dilatare la percezione e ridefinire i confini del mondo. In questo contesto il coro – Caterina Gobbi e Andrea Di Lorenzo – spinge il corpo oltre i confini fisici e sensoriali per avvicinarsi a forme di vita non umane. La volontà è quella di riplasmare la propria natura, diventare capaci di costruire nuovi collegamenti.

Nel secondo atto, Il montaggio delle azioni, alla segmentazione delle azioni fisiche, segue una ricomposizione. I protagonisti, Ludovica Carbotta e Driant Zeneli, sondano nuove possibilità di stare al mondo e osservano, al di là delle apparenze, le strutture profonde che governano i comportamenti umani. Le opere riflettono sull’esplorazione fisica dello spazio urbano, propongono modelli di città utopiche, ribaltano il concetto di giustizia creando dinamiche paradossali. Le relazioni di potere e la Storia si intrecciano con le narrative individuali, dando origine a delle utopie che sovvertono il naturale ordine delle cose. Posizioni, gesti e pensieri fino a poco fa alieni diventano parte integrante della coscienza. Come accade per le piante, capaci di inglobare gli elementi circostanti e fondersi tra individui, il nuovo organismo crea un legame biunivoco con l’ambiente di cui fa parte. Il coro – Annamaria Ajmone e gli interventi performativi di Carbotta e Zeneli – attraverso testimonianze fisiche intergenerazionali fa del corpo uno spazio politico a tutti gli effetti, dove le necessità della collettività e del singolo vengono rinegoziate.

Bisogna che l’attore esprima
insieme all’azione che sta compiendo
anche la possibilità di un’altra azione
che non viene compiuta.

Bertolt Brecht