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Prima stagione

Ep. 1 | La neutralità dei contenuti è solamente presunta | Daniel De Paula

Ospite d’onore della prima puntata Daniel de Paula, artista nato a Boston nel 1987 e cresciuto a San Paolo, rappresentato in Italia dalla galleria Francesca Minini di Milano. La ricerca di Daniel riflette sul sistema di produzione e le sue contraddizioni attraverso strategie come lo spostamento di oggetti quotidiani, l’appropriazione di infrastrutture pubbliche e la negoziazione. Il podcast si sofferma sull’opera circulação le cui immagini sono state ottenute in seguito a trattative che l’artista ha condotto con le aziende che lavorano per grandi colossi di estrazione petrolifera come Shell, British Petroleum o Exxon. 
In dialogo con l’artista, gli interventi della gallerista Alessandra Minini e degli studenti del Liceo Volta che lo hanno incontrato durante la mostra a Milano. Il racconto si muove dinamicamente tra una riflessione sul sistema dell’arte contemporanea e un’analisi sulle dinamiche di potere che governano la nostra società, svelando tramite un approccio antropologico punti di connessione spesso inaspettati.

Estratti dal primo episodio

[Daniel de Paula] Gli esseri umani trasformano e costruiscono senza sosta lo spazio per soddisfare le loro esigenze, in particolare per scambiare merci. Si instaura un sistema di costrizione, non solo come forma di dominio di una classe sociale sull’altra, ma come dominio sulla collettività da parte di strutture sociali astratte che noi stessi abbiamo contribuito a creare. In questo sistema di costrizione, in cui, a causa dell’ubiquità del lavoro e della produzione di valore, siamo condannati a trasformare i pensieri in cose, la materialità non è neutra, al contrario, è l’incarnazione del controllo e della circolazione del potere.

[Laura Lamonea] Nato a Boston nel 1987, ma cresciuto a San Paolo, Daniel de Paula ha presentato in occasione della XII edizione di Video Sound Art Festival un’installazione complessa nei sotterranei di un teatro storico di Milano, il Teatro Carcano, sotterranei di solito inaccessibili. L’opera circulação è stata esposta su uno schermo LED scomponibile in dialogo con elementi scultorei e sonori di nuova produzione. Lo schermo proiettava nella sua interezza le immagini video, ma parti di monitor erano state disseminate nei corridoi dei sotterranei. Circulação è una raccolta di filmati concessi all’artista da società che effettuano ispezioni per multinazionali attive nell’estrazione di risorse naturali e nelle telecomunicazioni. Le immagini, che mostrano la continua mercificazione del paesaggio, sono ipnotiche, interrotte dagli animali, uccelli rapaci, che vivono in questi “composti industriali e infrastrutturali”. La pratica di negoziazione attraverso  la quale l’artista riesce ad entrare in possesso dei filmati è parte dell’opera. La neutralità dei contenuti è solamente presunta.

[Daniel de Paula] Per circulação ho ottenuto queste immagini attraverso un processo di negoziazione con le aziende ingaggiate per girare riprese di controllo, quindi non ho necessariamente avuto contatti con le aziende direttamente coinvolte nel processo di estrazione delle risorse naturali, ad esempio le raffinerie di petrolio. Ottenere le immagini è stato meno difficoltoso rispetto al tentativo di ottenerle da aziende come Shell, British Petroleum o Exxon. In alcune occasioni le aziende, con cui sono entrato in contatto, hanno preferito non fornire le immagini, perché ritenevano che ciò potesse danneggiare i loro clienti, mentre in più di un’occasione le aziende si sono dimostrate abbastanza generose, a patto che io mantenessi il segreto sui nomi dei clienti. Spesso non mi viene detto a quale cliente specifico si riferiscano le immagini, ma è possibile ipotizzare quali siano le aziende dalla posizione delle infrastrutture e dai paesi in cui queste riprese vengono effettuate.


[Alessandra Minini] L’ho conosciuto a Milano nel 2018 durante una mostra al PAC – “Il coltello nella carne”. [..] E poi l’ho incontrato casualmente a Torino, qualche mese dopo, durante la fiera di Artissima, quindi diciamo che noi inizialmente abbiamo passato dei momenti non subito indirizzati ad un interesse specifico, una collaborazione, ma che poi è nata proprio con la conoscenza. Dopo quell’esperienza sono andata a trovarlo in studio, lui a quei tempi stava a Eindhoven, e lì ho approfondito il suo lavoro, abbiamo cominciato a lavorare insieme poi è arrivata la prima mostra insieme nel 2019. [..] Il suo lavoro si rivolge alle dinamiche di potere, anche all’aspetto finanziario, politico e sociale, quindi a delle dinamiche che si riproducono in ogni tipo di relazione, volendo ben vedere. Lui parte magari da degli elementi specifici di ricerca, però il suo discorso si astrae prendendo anche un valore universale; di conseguenza può essere rivolto anche al mondo dell’arte, anzi è rivolto al mondo dell’arte, che viene non criticato, ma viene svelato, perché lui non ha nessuna ambizione di offrire un punto di vista critico o una soluzione, anche perché sostiene, e io credo che sia assolutamente veritiero, che l’arte non può offrire una  soluzione, ma può semplicemente aprire gli occhi e svelare, come un’epifania. Lui porta in  superficie dei modelli che magari sono abbastanza evidenti, ma che poi sono nascosti da una serie di sovrastrutture, è per quello anche che il suo lavoro ha anche a che fare con l’archeologia  in un certo senso.

[Laura Lamonea] Chi frequenta Video Sound Art sa che incontrerà durante le giornate di apertura molti giovani, studenti dell’Università ma principalmente di scuole superiori. Partecipano a performance, danno informazioni  sulle opere, sulla sede in cui ci si trova di volta in volta. Non sono i ragazzi delle visite guidate ma parlano con i visitatori.
Da marzo 2022 è attiva la collaborazione con un gruppo di studenti del Liceo Volta di Milano, che in occasione del festival ha affiancato il nostro team nelle fasi di produzione e realizzazione, di creazione del percorso espositivo. Un’esperienza, questa, che ha permesso loro di avere un confronto diretto con gli artisti e a noi di porre nuove domande sulle opere. E così è stato con Daniel.  

[Caterina Zucchetti, studentessa del Liceo Volta] Aver avuto la possibilità di parlare sia con Daniel de Paula sia con il pubblico che veniva a visitare la mostra ha dato l’opportunità di vedere due mondi completamente opposti e di capire che visioni differenti si possono trarre da una stessa opera. L’opera parla fino ad un certo punto e leggere un testo o sapere in teoria di cosa parla un’opera non sarà mai come avere l’artista davanti che ti racconta le curiosità, cosa ha pensato, come è stato per lui stesso progettare quell’opera.

[Leonardo Trifirò, studente del Liceo Volta] Ho domandato a Daniel se pensasse che il suo lavoro – che serve a scoperchiare alcuni messaggi del lavoro delle multinazionali, del lavoro di aziende o comunque dell’ambito lavorativo – fosse simile al lavoro di un giornalista, che fa un lavoro di inchiesta per riuscire a scoprire e fare informazione. La domanda mi è venuta in mente perché l’artista parlava del fatto che lui tendesse a creare queste opere per denunciare alcuni comportamenti, alcune situazioni e ripensando a telegiornali mi è venuto in mente che fosse molto simile al lavoro di inchiesta dei giornali. 

[Daniel de Paula] Una pratica che mi appartiene è quella della ricerca sul campo e penso sia una modalità che anche i giornalisti professionisti o i reporter usino all’interno delle loro aree di interesse. Credo che sia importante – oltre alla pratica della negoziazione che si svolge di solito per posta elettronica, telefonate, video-conferenze o incontri – indagare gli spazi infrastrutturali di cui produco una critica. A volte questi luoghi sono inaccessibili per la loro posizione geografica, in altri casi perché sono aree private in cui non mi è consentito l’accesso. A volte, naturalmente, riesco a ottenere il permesso, ma in altri casi anche solo aggirare le recinzioni e i muri che proteggono queste aree è già qualcosa che genera materiale fertile per me, in quanto artista. Dunque, direi che è qualcosa che potrebbe avere un terreno comune con la pratica di un giornalista o di un reporter.

[Tommaso Santagostino] In questo continuo lavoro “sul campo” emerge con insistenza il tema della negoziazione, emblema della genesi delle opere di De Paula, che ci ricorda come l’accesso al mondo debba comprendere le dinamiche di potere e controllo esistenti e al tempo stesso debba giocare le proprie carte per mostrarne gli aspetti più inaccessibili o rimossi. Attraverso le sue opere egli gioca la negoziazione su più livelli, proprio come fa l’antropologo con i propri “informatori”, ovvero con coloro che si pongono come tramiti tra il ricercatore e il contesto sociale studiato, con pazienza, generosità e cura delle relazioni. Addirittura sono le stesse telecamere di sorveglianza dei grandi e inaccessibili siti estrattivi in giro per il mondo a svolgere il ruolo di informatrici della realtà che registrano giorno dopo giorno. Le telecamere sono strumento di controllo e disvelamento al tempo stesso, grazie a De Paula è in grado di mostrare a tutti ciò che a nessuno, se non a pochissimi, è concesso vedere.

Ph. 2: Daniel de Paula, circulação, 2019, video -negoziazione. Installation view, Video Sound Art XII edizione, Teatro Carcano, Milano, 2022. Ph. Francesca Ferrari

Ep. 2 | Lei nuota e la troupe la insegue camminando | Letia Cariello

La protagonista della seconda puntata è Letia Cariello, rappresentata dalla Galleria Massimo Minini di Brescia. La sua ricerca è tesa ad intercettare la consistenza materiale del tempo e a raccoglierne le tracce, rendendole visibili nella scrittura di calendari o nei legami a filo rosso di oggetti, materia e spazi.
Dal suo studio alla vasca della piscina Canottieri Milano, il podcast si sofferma sull’installazione complessa Hallenbad, nata nel 2003 e realizzata negli spazi di tre diverse piscine – Milano, Pontresina e Sacca Fisola. L’opera è stata presentata durante la IX edizione di Video Sound Art Festival negli spogliatoi femminili del Liceo Volta di Milano come installazione sonora, introducendo il pubblico in uno spazio mentale galleggiante all’interno del quale si percepisce l’eco del movimento delle braccia e del respiro dell’artista.

Estratti dal secondo episodio

[Letia Cariello] Mi chiamo LETIA Cariello e il mio lavoro è un lavoro sul corpo. Io disegno, fotografo, costruisco, sostanzialmente costruisco. Se dovessi sintetizzare con una sola parola quello che faccio è costruisco, metto insieme dei pezzi che sono comunque costruiti attraverso l’esercizio delle mani; per quanto il mio non possa essere definito un lavoro tradizionale, nel senso dell’uso della pittura piuttosto che di una figurazione, e comunque non rientri in nessuna categoria in maniera esclusiva, è l’uso del corpo e della mani, che è il motivo da cui parte il mio lavoro. Forse, come è in realtà per tutti gli esseri umani, si tratta di un bisogno di mettersi in relazione con le cose, quindi sì certo ho iniziato disegnando, continuo a disegnare, scrivo molto, scrivo nel senso di costruire dei calendari. Oramai sono diversi anni che lavoro e queste sono le conclusioni a cui sono arrivata, osservando il mio modo di lavorare, così come osservo gli oggetti. 

[Laura Lamonea] Credo fosse il 2017 poco prima delle vacanze natalizie. Avevo visitato una vecchia stamperia di libri d’arte che era stata convertita in spazio espositivo. Su una parete c’erano nove ritratti fotografici di una persona in costume da bagno con occhiali e una cuffia che copriva non solo la testa ma anche la gola.  Sulla testa c’era qualcosa che somigliava ad una telecamera ma sembrava un razzo. Era impossibile riconoscere il volto perché era come un’armatura. Mi era rimasta impressa negli occhi questa maschera di resistenza. Stavo per curare una mostra  a Palermo  avevo provato a chiedere in prestito i ritratti ma c’erano state delle difficoltà anche legate al fatto che mi ero trasferita in Sicilia. Nel mentre mi ero informata. Avevo recuperato la documentazione di una mostra al Pecci  di Prato del 2003  dell’artista che ho scoperto essere Letizia Cariello  e  quei ritratti facevano parte di un progetto più grande e che avrei voluto saperne di più. Ci siamo poi incontrate un anno dopo e abbiamo parlato a lungo di Hallenbad. E’ un progetto per me ancora molto misterioso. ho avuto modo di capire in questi  quattro anni che sono  infinite  le propaggini di tutti i lavori Letia e che spontano la nostra comprensione sempre un po’ più in là, passando dal piano della corporeità ad un altro che ancora non sono in grado di definire.

[Letia Cariello]  è un progetto basato sul nuoto, sulla mia pratica quotidiana del nuoto, che è un metodo per entrare nello spazio interiore attraverso l’uso del corpo – con un esercizio ripetuto e continuo, come quello dell’andare avanti e indietro lungo una corsia – che apre degli scenari, sono scenari di visioni interiori che io recupero ma che soprattutto cuciono l’aspetto performativo del mio lavoro con l’uso delle mani. 

[Laura Lamonea] Hallenbad è un’installazione complessa nata nel 2003, strettamente connessa alla pratica quotidiana di Letia che è il nuoto.  Ha costruito negli spazi di tre diverse piscine – Milano, Pontresina e Sacca Fisola – una performance sul corpo in relazione al tempo del battito del cuore e al ritmo del suo respiro. Munita di telecamera e laringofono fissati sulla testa e sulla gola, si è immersa in acqua per riprendere dal suo punto di vista la libertà dei movimenti prodotti durante il nuoto, mentre da bordo piscina quegli stessi movimenti venivano catturati da una troupe di operatori, dunque dall’alto. Ogni dettaglio è stato studiato nei minimi particolari: i disegni preparatori e il costume da lei disegnato, le bende bianche e la pesante attrezzatura che lei porta sul corpo in acqua per le riprese audio e video, le note rinascimentali di  Gesualdo da Venosa che l’accompagnavano nelle andirivieni lungo le corsie. I ritratti fotografici documentano gli istanti antecedenti l’entrata in acqua, ci restituiscono un’immagine di costrizione fisica, ma allo stesso di solennità e messi in relazione ai suoni ambientali raccolti in piscina arricchiscono l’opera video finale di ulteriori livelli di significato. 

[Letia Cariello] Quando mi hanno fasciata, mi hanno messo sulla testa questa telecamera, io avevo sotto il bendaggio, però dovevo nuotare in modo che questa mi inquadrasse.  Mi hanno microfonata e messo un laringofono che doveva riprendere il mio respiro. Poverini facevano quello che gli avevo detto di fare. Per fare un piano sequenza di 7 minuti, ho nuotato 4 ore.  

[Letia Cariello] L’acqua per me funziona solo in quanto acqua con cloro, acqua in una vasca chiusa, perché è una condizione di libertà dalla gravità che permette di equilibrare il respiro con lo spostamento e mi dà la possibilità di entrare in una condizione di lettura interiore, ma ottenuta attraverso il movimento e quindi apre delle visioni. Io nuoto a Milano, in realtà nuoto alla Canottieri Milano.

[Tommaso Santagostino] “la città di Milano ha un’immensa fame d’acqua” ci dice Francesco Fumagalli responsabile della Canottieri, sono infatti tantissime le piscine attive nella città e tantissimi i corpi che si immergono ogni giorno per le più svariate motivazioni e necessità. Milano è una città d’acqua e lo è stata davvero urbanisticamente parlando, almeno sino alla metà del Novecento quando è stata interrata la sua rete idrica, fatta di fiumi e canali che la collegavano più o meno direttamente ai laghi del nord e al mare attraverso la pianura padana.

[Tommaso Santagostino] La pratica di Letizia Cariello evidenzia la relazione esistente tra molteplici spazi, come lo spazio dell’interiorità di ogni persona e lo spazio fisico in cui le persone agiscono. Al contempo mette in luce come un luogo fisico come la piscina possa effettivamente aprirsi a una diversità di usi e intenzioni, che sono evidentemente densi di stratificazioni storiche, sociali e culturali che nei corpi natanti si formano e si informano in continuazione.

[Lea Vergine] Solo poco a poco si capisce (e si sente) quanto acuta e strategica sia la tecnica dell’eludere, del deviare; il continuo spostamento di attenzione che porta a quei sapidi echi e rumori, e suoni banali e significanti insieme, che sono Hallenbad. Maestra della digressione, mente sapendo di mentire sul vero tema trattato. Si guarda bene dall’afferrarlo ed espellerlo in modo diretto: sarebbe ordinario. Solo se lo spettatore si piegherà a non vedere e a non conoscere – ma solo a intuirlo – il tema centrale, il punctum dolens (di tutti noi, peraltro), solo se si lascerà ingannare dagli itinerari ambigui della sua piccola storia, potrà accedere a quella limitata ma ustionante parte di esistenza che Cariello ha deciso di offrire. Che è, probabilmente, l’essenza stessa del linguaggio. 
Questo è quanto. Ma su Cariello c’è ancora molto da dire, credo; e anche su Hallenbad.

Letia Cariello, Hallenbad Project, 2013
Ep. 3 | Sono partito da Valparaiso su una nave cargo | Enrique Ramírez

La terza puntata è dedicata all’artista franco cileno Enrique Ramírez, selezionato per la Biennale di Venezia del 2017 a cura di Christine Macel, finalista del premio Duchamp 2020 e rappresentato in Francia dalla Galleria Michel Rein. Nella sua ricerca l’artista crea spazi narrativi che attraversano temi quali il viaggio e la memoria, e in cui mare è metafora liberatoria di fantasie, ma anche luogo fisico di una attuale realtà politica. Il podcast prende in esame l’opera video Océan, 33°02’47 “S / 51°04’00 “N (2013) filmata con una telecamera in movimento durante ventiquattro giorni di viaggio da Valparaiso (Cile) a Dunkerque (Francia), su una nave carica di prodotti alimentari deperibili. L’opera è stata presentata durante la X edizione di Video Sound Art Festival presso la piscina Romano di Milano in occasione della prima mostra personale in Italia di Ramírez, preludio all’esposizione nel Centre Georges Pompidou di Parigi. In dialogo con l’artista, gli interventi del gallerista francese Michel Rein fanno luce sulla nascita della loro collaborazione e sulla poeticità dell’indagine con cui Enrique esplora il mondo contemporaneo.

Estratti dal terzo episodio

[Enrique Ramírez] Sono salito sul Pacific Breeze, nave che trasportava mele e altri tipi di frutta dal Cile, dal porto di Valparaiso a San Pietroburgo con una sosta a Dunkerque. Il primo giorno ho assistito ad operazioni che hanno attirato la mia attenzione, perché il primo giorno non è dedicato al viaggio ma al carico della nave e ho avuto modo di osservare aspetti del lavoro che avevano molto a che vedere con lo scopo del mio viaggio, parlare del mondo, pensare al mondo, pensare alla terra vista dall’acqua e pensare a tutti gli scambi che esistono nel mondo dalla prospettiva della barca.

[Laura Lamonea] Video Sound Art ha dedicato una mostra personale ad Enrique negli spazi della Piscina Romano, aperti per la prima volta all’arte contemporanea, una piscina inaugurata nel 1929. Il percorso espositivo non si limitava alla vasca ma si estendeva negli spogliatoi, nella biglietteria; avevamo scelto di allestire Océan proprio nel medagliere, una griglia composta da tubolari metallici, deposito per gli oggetti dei persone che stanno per entrare in vasca. Nel medagliere era possibile avere al tempo stesso una visione del singolo video ma anche vedere tutti i 24 schermi contemporaneamente. Si aveva la sensazione di partire in prima persona su quella nave che trasportava prodotti alimentari deperibili diretta verso i paesi del nord dell’Europa.

[Enrique Ramírez] Océan è nato da un’idea che risale al 2009. Avevo in mente di fare un viaggio contrario a quello dei conquistadores, ovvero di andare alla conquista dell’Europa partendo dal Sud America. Abbiamo attraversato il Canale di Panama, siamo arrivati a Dunkerque, siamo partiti in estate e siamo arrivati in inverno. In questo senso il viaggio per me è stato molto speciale perché ho sentito davvero il tempo.  A differenza dell’aereo dove manca la dimensione del viaggio e ci si sposta e basta, in nave si viaggia. É stato uno dei viaggi più belli che ho fatto, un viaggio in cui ci si rende conto di quanto siamo piccoli come esseri umani e di quanto sia meravigliosa la natura, di quanto sia potente. Il solo fatto di viaggiare e di non spostarsi ti fa capire che il mondo è pieno di cose che normalmente non vediamo, che sono cose piccole ma assumono una grande importanza in un viaggio che in fondo è molto solitario. Non so, per esempio  ho osservato gli uccelli volare tra le navi, cosa che non immaginavo potesse esistere, ho visto gli alberi galleggiare  nel mare in mezzo al nulla e mi sono chiesto: ma come sono arrivati lì?

[Michel Rein] La nostra galleria esiste da 30 anni, io sono appassionato di argomenti che toccano la politica, la politica nel senso più ampio del termine, e sono anche appassionato di poesia e ho sempre cercato artisti che fossero in linea con le mie propensioni, non parlo necessariamente di una direzione artistica,  diciamo in linea con quello che mi interessa. Quando ho aperto il file di Enrique ho pensato che fosse assolutamente meraviglioso, mi è sembrato una persona interessata al tema politico a cui univa un’immensa poesia, era il  2014, l’anno in cui poche settimane dopo avrebbe ricevuto il premio degli Amici del Palais de Tokyo. E così, immediatamente mi sono innamorato del lavoro di Enrique. Ci siamo incontrati e molto rapidamente qualche mese dopo abbiamo fatto una mostra qui in galleria. È così che è iniziata la storia.

[Enrique Ramírez] Sono nato nella periferia di Santiago del Cile in un laboratorio di costruzione di vele per barche, quindi per me la vela era qualcosa che faceva parte della vita di tutti i giorni. Solo molto tardi ho capito che era un elemento molto importante per me. Non sono un artista da bottega come mio padre ad esempio. Praticamente non ho uno studio, il mio studio sono i luoghi dove vado, i luoghi che voglio andare a vedere, il mio studio potrebbe essere la nave Océan, il mio studio è la strada o l’aeroporto o la persona che incontro. Lo studio è il viaggio, diciamo, o il mondo. Questo ha anche molto a che fare con la vela, perché la vela è tra le altre cose, una rappresentazione del viaggio o della ricerca di altri luoghi, è anche una bandiera, un modo di andare lontano, di astrarsi dalla realtà.

[Laura Lamonea] La nave è un frammento galleggiante di spazio, un luogo senza luogo, che vive per sé stesso, che si autodelinea e che è abbandonato, nello stesso tempo, all’infinito del mare […] la nave è stata per la nostra civiltà, dal XVI secolo fino ai giorni nostri, non solo il più grande strumento di sviluppo economico […] ma anche il più grande serbatoio di immaginazione. La nave è l’eterotopia per eccellenza. Nelle civiltà senza navi, i sogni si inaridiscono, lo spionaggio sostituisce l’avventura e la polizia i corsari.

[Enrique Ramírez] Onestamente non mi sento parte di nessun luogo e questo, il non sentirsi parte di nessun luogo, è stato molto difficile da accettare: non vivo in Cile, quando vado in Cile sono uno straniero come tanti, ogni volta che attraverso le Ande è come se il mio cuore venisse strappato via, e ogni volta che torno qui dico che non sono di qui, il mio accento non me lo permetterà mai, ma ho vissuto in entrambi i luoghi, in Sud America e qui in Francia. La Francia mi ha in qualche modo accolto e mi ha dato la possibilità di dedicarmi all’arte, cosa che non pensavo fosse possibile prima di venire qui. La mia carriera artistica forse la devo in gran parte alla bottega di mio padre, a mia madre perché ha sempre creduto in me e alla Francia e a un paio di amici, ma diciamo che il fatto di essere in Francia è stato molto importante per me perché oggi posso dire di avere la possibilità, la fortuna e il lusso di vivere del mio lavoro.

[Michel Rein] È profondamente cileno. Beh, prima di tutto, sua madre vive in Cile. Penso che ami profondamente il suo Paese e tutto il suo lavoro ruota intorno a questo. Amore per il suo paese, che si tratti di questioni politiche o di quando fotografa la Patagonia, si vede che è un grande amante del suo Paese e, allo stesso tempo, è venuto in Francia, ha scelto di venire a studiare a Parigi. Credo che abbia scelto Parigi e Parigi lo abbia scelto a sua volta. Ora ha uno studio, ha molto sostegno da parte di collezionisti privati francesi, molto sostegno istituzionale perché ha fatto la Biennale di Venezia a cura di Christine Macel, che è parigina, quindi Parigi lo ha adottato.

[Tommaso Santagostino] In spagnolo la parola “cosmovisión” è utilizzata per indicare la prospettiva attraverso cui un gruppo sociale, una comunità o un individuo guardano, immaginano ed esperiscono la propria realtà. Assumere l’esistenza di molteplici visioni del mondo significa affermare, in un’ottica antropologica, che nessuna di queste deve diventare egemone sulle altre. La storia personale e artistica di Enrique Ramírez ci conduce in una dimensione transculturale in cui l’artista è costretto a rinegoziare continuamente la propria identità facendo i conti con la propria duplice appartenenza, allo stato di origine, il Cile, e a quello di adozione, la Francia. Anche questa è una cosmovisione che si concretizza nelle opere di Ramírez e in particolare in Océan, come abbiamo raccontato: la nave come emblema dell’eterotopia e dell’immaginazione al tempo stesso inquietante e generativa perché completamente aperta al mondo e alle sue possibilità.

Enrique Ramírez, Océan, 33°02’47 “S / 51°04’00 “N, 2013
Ep. 4 | Là dove gli esseri umani non possono arrivare | Driant Zeneli

Il protagonista della quarta puntata è Driant Zeneli, artista albanese che dal 2001 ha scelto di vivere e lavorare in Italia ed è rappresentato dalla Galleria Giorgio Persano di Torino. La sua ricerca parte dalla ridefinizione dei concetti di fallimento, utopia e sogno. I suoi video narrano storie del mondo ambientate in spazi infiniti e senza confini, in cui si aggirano personaggi con lo sguardo sempre rivolto verso l’alto, teso verso il tentativo dell’altrove e l’esplorazione dell’ignoto.
Il podcast si concentra sulla trilogia The Animals. Once upon a time… in the present time (2019-2022) che comprende l’opera The firefly keeps falling and the snake keeps growing presentata nel 2022 alla Biennale Manifesta 14. Nella trilogia ritroviamo tre edifici di origine brutalista della penisola balcanica – la Biblioteca Nazionale di Prishtina (Repubblica del Kosovo), la Piramide di Tirana (Albania) e l’ufficio delle Poste di Skopje (Nord Macedonia) – all’interno dei quali Driant fa vivere animali robot, pesci volanti, insetti meccanici che si trovano a interagire con i corpi architettonici in cemento armato. La struttura narrativa riprende il modello della favola contemporanea attraverso la quale l’artista si concentra su sentimenti umani come la paura, il fallimento, l’isolamento e l’invidia.  La coautorialità nella costruzione dei film  è la premessa per guardare verso nuove direzioni,  e questo è ancora più evidente se i protagonisti sono un gruppo di bambini in relazione con un‘architettura profondamente legata alla storia del loro paese.

Estratti dal quarto episodio

[Driant Zeneli] Come possiamo raccontare un’architettura? Un’architettura, come sappiamo, è fatta da chi l’ha creata, da chi la vive da dentro, ci lavora, ma anche da chi la vive da fuori, la percepisce.

[Laura Lamonea] Nella trilogia ritroviamo tre edifici di origine brutalista della penisola balcanica all’interno dei quali Driant fa vivere animali robot, pesci volanti, insetti meccanici  che si trovano  a interagire con corpi in cemento armato. La struttura narrativa riprende il modello della favola contemporanea attraverso la quale Driant si concentra su sentimenti umani come la paura, il fallimento, l’isolamento e l’invidia. I tre spazi architettonici di origine brutalista, sono presenti nelle tre capitali della penisola balcanica: La Biblioteca Nazionale di Pristina in Kosovo, La Piramide di Tirana in Albania e l’ufficio delle Poste di Skopje nella macedonia del Nord.

[Driant Zeneli] Sono stato attratto dalla Biblioteca Nazionale di Pristina in Kosovo che riprende non solo l’estetica brutalista ma anche la cultura popolare di Bisanzio, la cultura ottomana e tutte le stratificazioni che ci sono nei Balcani. Ho deciso di lavorare con un gruppo di bambini dell’età di 10 anni, con i quali abbiamo deciso di iniziare a costruire una favola intorno a questo edificio. Io gli ho dato il primo input: un gioco che si chiama vola vola, facendo vola vola l’asino, vola vola questo alla fine ho detto vola vola il pesce e nessuno ha alzato la mano. Io ho detto sì, ci sono pesci che volano, è possibile, gli ho fatto vedere un pesce che vola – si sposta per non so quanti metri – e loro vedendolo hanno detto “wow, non lo sapevamo”. Da qui siamo partiti a riflettere sul fatto che ci sono cose che noi percepiamo come impossibili, ma invece la natura ci insegna ogni giorno che supera i suoi limiti e noi di questo sappiamo sempre meno. Gli ho fatto vedere anche come si costruisce un film, il suono quanto è importante, i bambini hanno costruito una storia e dall’altra abbiamo documentato il corpo di un’architettura che contiene già tanti strati di storia. 

[Laura Lamonea] E’ attraverso l’inseguimento che osserviamo la struttura dall’esterno e dall’interno. La storia è uno sfondo astratto, l’immaginazione diventa  uno  strumento collettivo. L’elettronica e la robotica sono parte integrante del gioco messo in atto per aumentare l’immaginazione. La coautorialità è la premessa per esplorare, stravolgere, guardare verso nuove direzioni,  e questo è ancora più evidente se i protagonisti sono un gruppo di bambini che entra in relazione con un‘architettura profondamente legata alla storia del loro paese.
Le favole filmiche di Zeneli nascono da incontri casuali e la soluzione a domande, che sembrano non avere una risposta, rientra nel processo di creazione collettiva che percorre tutta la trilogia. Ciò che conta è l’incontro.

[Driant Zeneli] All’improvviso guardando il telegiornale in tv ho visto un ragazzo albanese che era appena uscito dalla prigione, condannato per omicidio, però quello che era interessante è che per questi 21 anni di prigione Rilond Risto per sopravvivere anche mentalmente, per esprimere la sua passione per l’arte e l’ingegneria aveva iniziato a costruire farfalle robotiche con tutti i meccanismi che lui trovava in prigione – rasoi, tutte le macchinette che lui trovava di nascosto. Gli ho commissionato una libellula – la dragonfly e lui ha accettato volentieri questa sfida. Io giravo, giravo, pensavo su quale architettura raccontare questa storia e poi mi sono ricordato che c’è un’altra architettura brutalista importante che contiene tanti strati di storia, la Piramide di Tirana. Con Rilond siamo andati alla piramide tenendo a mente questa storia della libellula e ci siamo chiesti come raccontare la storia di Rilond dentro questo edificio, che lui ha definito un labirinto; ed era perfetto, c’era la storia di questa libellula finita in un labirinto, in un oceano – come lui definisce i ventuno anni vissuti in prigione, sotto l’oceano.

[Mathilde Roman] La realizzazione dei film è un viaggio in cui Driant porta con sé gli altri, condividendo con loro il suo desiderio di guardare il cielo e trarne energia per fare qualcosa sulla terra. I suoi scenari disegnano traiettorie immaginarie che partono dalla realtà e la collegano a nuovi mondi. Vecchi amici o nuovi incontri, bambini o adulti, coloro che partecipano alle avventure dei suoi film sono collaboratori attivi. In un processo di lavoro costruito nel tempo, viene scritta una favola che porta con sé storie personali, desideri e impulsi condivisi e necessari.

[Driant Zeneli] Come concludere la trilogia? Nel 2021 mi invita la Galleria Nazionale della Macedonia del Nord, a Skopje, per fare una personale lì; vado a visitare Skopje, ero già stato, però non avevo avuto uno sguardo attento e vedo in centro questa magnifica architettura brutalista – l’Ufficio Postale di Skopje – per metà bruciato e abbandonato per metà in funzione. Da lì è nata l’idea di costruire la terza storia con la collaborazione della Galleria Nazionale e con gli studenti dell’Università di Ingegneria Meccatronica di Skopje ho costruito la storia della lucciola che cerca di scappare dal serpente. Diversamente dalle altre due favole che abbiamo costruito, questa è una favola già esistente, una favola medievale di cui non sappiamo l’autore, che racconta la fuga di questa lucciola dal serpente che la insegue per mangiarla. 

[Laura Lamonea] L’esperienza del set  mi ha permesso di osservare degli aspetti del suo modo di lavorare che non avevo colto durante le mostre.  Il set è un luogo di  creazione ma anche di relazione tensione burek e baklava  in Macedonia del Nord. Ho visto Driant nel flusso del lavoro  saper aspettare le soluzioni, trovare le soluzioni,  ascoltare il gruppo.

[Tommaso Santagostino] Dal punto di vista dell’antropologia la città è vissuta e interpretata nel suo “farsi continuo”, non esiste di per sè. Vale a dire che la forma urbana dipende esclusivamente da coloro che la riempiono di significato, dai suoi abitanti e dalle possibilità relazionali che gli spazi della città offrono. E sono proprio le relazioni informali che si realizzano negli interstizi della città a rappresentare dei veri e propri movimenti di resistenza e di riappropriazione dello spazio pubblico fisico e immaginario. Che è proprio quello che mette in luce Driant.

Ep. 5 | L’oro bianco di Capodimonte | Oli Bonzanigo

La quinta puntata è dedicata alla Real Fabbrica di Capodimonte e all’artista Oli Bonzanigo
In dialogo con il direttore del complesso Valter Luca De Bartolomeis e con i maestri ceramisti Gennaro Cavaliere, Armando Del Giudice e Antonio Viscusi, l’artista racconta le fasi di ideazione e produzione dell’opera scultorea I was a nervous heat, ripercorrendo l’esperienza vissuta e le complessità di lavorazione della porcellana.
L’opera – una colonna vertebrale in porcellana divisa in sezioni, 33 vertebre e 2 cranei – è il frutto di uno studio portato avanti dall’artista sulle relazioni di mimesi tra forme architettoniche sacre e anatomia umana e riflette sulle azioni dell’uomo e i movimenti della materia come veicolo di contaminazioni culturali e geografiche.
Le sculture sono state realizzate durante la residenza artistica organizzata da Video Sound Art in collaborazione con la Real Fabbrica della Porcellana di Capodimonte e presentate in occasione della VIII edizione del Festival presso l’ex Albergo Diurno Venezia di Milano. 

Estratti dal quinto episodio

[Oli Bonzanigo] Sono stata invitata da Video Sound Art a fare questo progetto di residenza all’Istituto Caselli di Capodimonte con grandissimi maestri. Ho proposto di sviluppare una tematica su cui stavo già lavorando da un po ‘, che era un’ipotesi di mimesi tra le architetture sacre e l’anatomia umana. E’ difficilissimo fare le vertebre, è un incastro incredibile, sono degli spazi perfetti. In un contesto che è sacro perché nell’Istituto Caselli la gestualità è veramente una danza spirituale: le modalità, i tempi del materiale, la cura, la precisione tecnica, la sensibilità…è commovente e quindi ho avuto questa possibilità di lavorare con gli artigiani, tantissimi giorni, entrare nella quotidianità delle loro produzioni delle loro idee, dei loro giochi con questo materiale veramente difficile da lavorare.

[Laura Lamonea] Tra noi la chiamavano l’oro bianco certamente perché la porcellana di Capodimonte rimanda alle collezioni conservate nella reggia, l’attuale Museo di Capodimonte e poi perché l’edificio della Real Fabbrica immerso nel bosco è un luogo bianchissimo, con i maestri che indossano camici bianchi.

[Valter Luca De Bartolomeis] Entrare in contatto con noi proietta le persone verso una dimensione quasi perduta, che noi però siamo ancora capaci di raccontare con tutta l’anima e con tutta la poesia che, tra l’altro, io credo un luogo come questo – il bosco di Capodimonte – non fa altro che potenziare. È molto bella anche la sinergia che si crea tra i maestri, l’artista o il progettista, un momento di scambio di dialogo in cui si unisce il fare con le idee.

[Oli Bonzanigo] Mi hanno concesso di lavorare il materiale, come ho sempre lavorato la creta in fonderia, che in realtà per la porcellana è un po’ pericoloso perché c’è stato numerose volte durante la cottura questo rischio di esplosione, perché ha un comportamento particolare che non avevo mai trovato in nessun altro materiale che è che la porcellana ha memoria, quindi nel momento in cui tu fermi la forma se poi la vai a rimanipolare, in forno torna e ti rivela l’errore. E in più è un lavoro anche molto di gioielleria, perché la pelle finale, quindi la cristallina, viene fatta con questi bagni, sembrano dei bagni battesimali. 

[Antonio Viscusi] Una delle difficoltà di questo impasto è a parte tutta la lavorazione, in particolar modo la cottura. La cottura è sempre una cosa affascinante in quanto è quella che ti va a determinare la qualità di tutto il lavoro svolto; quindi la sfida con il fuoco, il controllo della temperatura è sempre una cosa che relativamente diciamo controllabile a parte le nuove tecnologie, quindi tutto un sistema informatico che ti può dare certi parametri di cottura, alla fine si va a vedere sempre il risultato se è quello buono; altrimenti si rifà da capo.

[Laura Lamonea] L’opera I was a nervous heat è una colonna vertebrale divisa in sezioni – 33 vertebre, 2 cranei attraverso la quale Oli Bonzanigo prosegue l’indagine sul rapporto tra umano e materia, sulle azioni e i movimenti come veicolo di contaminazioni culturali e geografiche. Le sezioni, realizzate durante la residenza a Capodimonte a partire dai modelli in creta, in scala leggermente maggiorata rispetto al corpo umano, sono state presentate la prima volta a Milano presso l’ex Albergo Diurno Venezia  uno spazio degli 20 progettato per viaggiatori dall’architetto Portaluppi  in cui il corpo è continuamente evocato tra le sale da bagno  e le sale degli artigiani – parrucchiere, barbiere, manicure . 

[Tommaso Santagostino] Anche in questo caso le tensioni sociali e antropologiche sono messe in circolo dalle forme artistiche, come nell’opera di Oli Bonzanigo che offre differenti prospettive ai corpi, alle materie, alle loro lavorazioni e agli spazi scelti per darne fruizione pubblica. Ancora una volta dunque siamo di fronte a una fitta trama di movimenti, che sono appunto quelli delle mani dei maestri di Capodimonte, delle vertebre che formano le spine dorsali, delle opere che transitano dalla Real Fabbrica al Bosco di Capodimonte e vengono inseriti nelle stanze anni ’20 ormai in disuso nel sottosuolo della città di Milano. Questo movimento, come ci ricorda Oli, è mimetico, non rappresenta solo il transitare delle persone e degli oggetti, ma anche dei concetti e del linguaggio che spiega il mondo. In questo transito, molto più prossimo a una spirale che a una linea continua e dritta, tutto muta e si rende disponibile a nuove prospettive e interpretazioni.

Ep. 6 | Safari | Cecilia Mentasti

Il podcast dedica la sesta puntata a Cecilia Mentasti, ospite del Festival in due diverse edizioni: – Il resto presso il Liceo Volta di Milano nel 2019 e  RYTHMÓS al Museo Civico di Storia Naturale nel 2021. L’intento della sua ricerca è riportare alla luce il lavoro silenzioso di tutti gli attori del sistema dell’arte, dai restauratori, agli assistenti, ai trasportatori, che si prendono cura delle opere nel tempo.
L’artista, in dialogo con la conservatrice museale Mami Azuma, racconta la nascita della performance Safari (not the exception but the rule), presentata in occasione della XI edizione del Festival coinvolgendo un gruppo di studenti di Milano.
I liceali performer, trasformati in guide e allestitori museali, durante le visite aperte al pubblico nelle sale del Museo Civico di Storia Naturale, hanno messo in atto azioni performative di disturbo e interruzione, trasportando piani di fuga e opere realizzate dall’artista per l’occasione – casse di trasporto di animali esotici, teche espositive.
Il punto di partenza del lavoro è una riflessione su un oggetto specifico – i guanti indossati dal personale che trasporta le opere d’arte – sottolineando l’importanza e il valore di ciò che viene maneggiato. Servendosi di questo elemento l’artista mette in luce quegli elementi museali che sono costantemente davanti agli occhi del pubblico, senza essere notati.

Estratti dal sesto episodio

[Laura Lamonea] Per la mostra di Video Sound Art al Liceo Volta di Milano nel 2019 Cecilia Mentasti, che era tra gli artisti ospiti, aveva per giorni riparato con dello stucco bianco tutte le crepe e le imperfezioni di un piano della scuola.  In un certo senso aveva scelto di prendersi cura dell’edificio ma anche di indicare punti spesso inosservati delle pareti e quei buchi. una volta riempiti di stucco, erano diventati bianchissimi e attraenti. Aveva anche realizzato delle zeppe in legno, oggetti che usano le restauratrici per tenere le statue erette durante la lavorazione, le aveva posizionate all’inizio in luoghi che a me sembravano nascosti e in un certo senso casuali. Le avevo chiesto come mai avesse scelto l’angolo della palestra meno illuminato e mi aveva risposto che per lei era interessante che quei supporti  fossero dove non sarebbero stati, dove non li avremmo immaginati, e dove le persone si sarebbero stupite di ritrovarli. Quella risposta mi aveva permesso di addentrarmi meglio nella sua pratica e di capire che quel posizionamento non marginalizzava l’opera ma la ricollocava, dandole un nuovo contesto.

[Mami Azuma] Sono Mami Azuma, conservatore della sezione di Botanica del Museo di Storia Naturale di Milano. Come formazione non sono una botanica pura, sono una forestale, perciò sicuramente ho un piglio molto più diretto e operativo, perché questo è un po’ il lavoro che fa un boscaiolo in una foresta.
Il Museo ha una storia antichissima, nel senso che siamo il primo Museo Civico fondato dal Comune di Milano e questo nasce dalla collezione privata di Giuseppe De Cristoforis e Giorgio Ian che erano due naturalisti, diciamo non professionisti, ma grandi appassionati che hanno donato la loro collezione per formare il Museo di Storia Naturale di Milano. Tutto ciò nel 1838, anno di Fondazione del Museo.  Poi, quando i tempi sono stati maturi dal punto di vista sia di progettazione che di fondi, soprattutto per la costruzione, è stato progettato il Museo di Storia naturale di Milano che è l’attuale edificio, costruito proprio per essere Museo di Storia naturale.

[Cecilia Mentasti] Il guanto bianco, il guanto in nitrile da tecnico del restauro, ci dice che ció che noi abbiamo in mano è un’opera, un reperto. Ho fatto indossare a questi gruppi di ragazzi i guanti.  Loro si muovevano all’interno dello spazio del museo portando vari oggetti.  Ho realizzato questi oggetti in ceramica che riprendono la forma di tutti quegli elementi che stanno sotto i reperti, per esporre i negativi di quello che sono le opere esposte e poi ho creato queste giraffe in ceramica. Mi divertiva  l’idea di pensare al trasporto di una giraffa.

[Thomas Ba] All’inizio probabilmente lo spettatore rimaneva un pochino interdetto, perché chiaramente, visitando il museo durante la sera non si aspettava di vedere questo tipo di di movimento, però piano piano cominciava a capire che in realtà queste persone portavano non esattamente dei piani di fuga, ma delle opere che erano realizzate come dei piani di fuga.
[…] Lavorando con degli spazi che non sono spesso dedicati all’arte contemporanea, c’è bisogno a 360° di un lavoro di mediazione. C’è stato un momento in cui la conservatrice. Mami Azuma ha assistito a una parte della performance di Cecilia Mentasti e non era completamente convinta del risultato. Voleva dei chiarimenti su alcuni punti, voleva capire anche dove emergesse il lavoro. Per lei era importante che emergesse chiaramente anche il lavoro di Cecilia

[Mami Azuma] In tutto questo sicuramente è stato molto interessante per me per vedere che hanno in parte accolto le mie osservazioni, non erano tenuti a farlo. Il fatto di avere una possibilità di ripetere più volte questa performance secondo me è stato sicuramente interessante, non certo per il pubblico, perché il pubblico non ha potuto ripetere l’esperienza, ma sicuramente per chi ha partecipato al progetto si, sia per chi l’ha ideato, Cecilia, che per gli studenti che hanno partecipato. 

[Cecilia Mentasti] Gli studenti mi davano i loro i loro feedback su come era andata la performance in quel momento e quindi è diventato proprio un lavoro collettivo, un rapporto, quasi un corpo a corpo tra loro e la visita guidata, una presenza che è diventata sempre più forte. La performance è diventata quasi un modo di interagire con lo spazio.

[Tommaso Santagostino] Il lavoro di Cecilia e in particolare questa sua attenzione alle marginalità mi hanno riportato ad un testo di Enrico Nivolo del 2016 dall titolo Antropologia dei clown. Attraverso le figure chiave del clown e del trickster (il mistificatore, l’imbroglione, briccone) presenti in vari sistemi culturali viene evidenziata l’importanza della goffaggine, dell’imprevisto e del fallimento nell’evocare dubbi e incespicamenti. I sistemi culturali spesso delegano a queste figure una rottura rispetto all’esistente e questo accade perchè ogni cultura che agisce e si realizza  è  anche una meta-cultura  che riflette su se stessa, i propri limiti e quello che potrebbe essere e non è. Un’azione metaculturale  nel caso di Cecilia significa usare il museo come contenitore dell’opera e al tempo stesso renderlo oggetto di riflessione e di decostruzione. Il filosofo Gilles Deleuze chiamava linee di fuga quelle che si aprono negli spazi metaculturali del sistema occidentale capitalistico che ha la caratteristica speciale di presentarsi come l’unica significazione possibile, come l’unico sistema culturale possibile.
Vi è dunque più che un’assonanza fra i piani di fuga di Cecilia Mentasti e le linee di fuga di Gilles Deleuze, fra la goffaggine del clown e le interruzioni performative alle visite guidate del museo. Si tratta in tutti i casi di dispositivi che mettono gli esseri umani nella condizione di riflettere su loro stessi e sulle proprie abitudini incorporate. Può anche accadere che così i sistemi culturali si distruggano e si ricostruiscano, ma in generale questi livelli meta-culturali hanno sempre a che fare con la critica quanto con l’autoironia e l’umorismo e sono fondamentali per garantire vitalità, movimento e ossigeno agli universi culturali.

Ep. 7 | L’Occhio e i Pianeti | Luca Maria Baldini

La settima puntata è dedicata al musicista e compositore Luca Maria Baldini e alla performance  L’Occhio e i Pianeti presentata presso il Planetario Ulrico Hoepli di Milano durante l’XI edizione di Video Sound Art Festival.
Il paesaggio sonoro, ispirato dalle suggestioni letterarie di Calvino e dalle contemporanee osservazioni del cielo da una prospettiva filosofica e scientifica, ha accompagnato un itinerario di scoperta della volta celeste. Con la partecipazione dell’astrofisico e conservatore del Planetario Fabio Peri, la puntata ripercorre la costruzione della performance concentrandosi sul rapporto che lega l’uomo con il cielo notturno. 
Osservare il cielo, di giorno e di notte, è un gioco di prospettive e ipotesi che coinvolge profondamente l’umanità e la sua storia. Un gioco che è stato interrotto dalle luci della rivoluzione elettrica.Il planetario rimane una delle ultime forme di resistenza  che permette di ammirare il cielo ed è in grado di spegnere le luci della città, fronteggiando la mancanza delle stelle.
L’Occhio e i Pianeti è un progetto nato in collaborazione con Luca Maria Baldini, il collettivo Le Cannibale, drammaturgia a cura del team curatoriale di Video Sound Art, regia di Tommaso Santagostino e con la partecipazione dell’astrofisico Fabio Peri.


Le puntate di Fino a prova contraria saranno pubblicate a cadenza mensile su Spreaker e sulle principali piattaforme di distribuzione (Spotify, Apple, ecc.).